Tra le righe
In che modo il cambiamento climatico ci sta cambiando? Intervista a Clayton Page Aldern
Ginevra Barbetti, Clayton Page Aldern
Clayton Page Aldern è uno scrittore e data scientist che da anni studia il rapporto tra la scienza e la società. Vive nel Pacifico nord-occidentale e ha pubblicato un saggio – The weight of Nature - tradotto in italiano da Aboca Edizioni con il titolo Se il tempo è matto… che esplora gli effetti del cambiamento climatico sul nostro comportamento e il modo di ragionare, le decisioni, la salute mentale ed emotiva.
«Un mondo in trasformazione può cambiarci dall’interno. L’energia mentale è energia fisica: ci sono prove degli impatti diretti del cambiamento ambientale sul cervello e la mente»
Sette anni di studi e ricerche utili a far dialogare tra loro le ultime scoperte relative alle neuroscienze, alla psicologia, all’economia, mostrandoci che un ambiente in rapida trasformazione agisce direttamente sui diversi processi umani. «Questo libro non è un approfondimento sull’ansia da clima – spiega Aldern – nemmeno sulla comunicazione o le politiche che concernono i modi in cui le dimensioni psicologiche del problema climatico si prestano a complicare questi ambiti», sono tre gli aspetti fondamentali dove Aldern si sofferma: l’influsso del cambiamento climatico sul comportamento, i modi in cui un ambiente che si altera entra esplicitamente in conflitto con la salute neurologica e infine, come il degrado ambientale tocchi i sistemi sensoriali, plasmando linguaggio e percezione. «Come faremo a tenerci in equilibrio sulla cresta? Sorreggendoci a vicenda. Sulla scialuppa di salvataggio c’è spazio. Le mie parole non sono l’onda, ma la mano che si protende. Basta aggrapparsi» chiosa l’autore.
Il cambiamento ambientale ci cambia anche dall’interno: quali sono gli impatti diretti sul cervello?
La relazione tra cambiamento ambientale e cervello è più intima di quanto possiamo immaginare. Quando le temperature aumentano, varie reti neurali funzionali diventano meno coordinate ed efficienti. Basti pensare agli studenti universitari, che ottengono risultati peggiori nei test cognitivi durante le ondate di calore, o a schemi più ampi di decisioni compromesse. E non si tratta solo del caldo. L’inquinamento atmosferico, i cambiamenti stagionali e persino la perdita di paesaggi familiari lasciano il loro segno sulla nostra architettura neurale. Il cervello è incredibilmente plastico, si adatta costantemente al suo ambiente. In questo momento, però, la nostra “cornice” sta cambiando più rapidamente rispetto a qualsiasi altro periodo della storia umana.
Quindi le persone che vivono in aree altamente inquinate hanno una maggiore probabilità di declino cognitivo e demenza.
Le prove sono piuttosto evidenti. Le particelle fini provenienti dall’inquinamento atmosferico non si fermano nei polmoni: attraversano direttamente il cervello, innescando infiammazioni e sottili cambiamenti strutturali. A Città del Messico, i ricercatori hanno trovato segni di patologie di Alzheimer a insorgenza precoce nel 99% dei giovani residenti studiati. Questo è ciò che rende l’inquinamento atmosferico tanto insidioso: i danni si accumulano in modo silenzioso e spesso diventano evidenti solo anni o decenni dopo. Inoltre, una qualità peggiore dell’aria, tende a concentrarsi in comunità che storicamente hanno avuto meno potere politico per opporsi allo sviluppo industriale.
Quali effetti può provocare l’esposizione al calore estremo?
La ricerca ha dimostrato che lo stress da calore innesca infiammazioni nell’ippocampo, una regione del cervello essenziale per la formazione della memoria. Come accennato in precedenza, a temperature elevate le connessioni funzionali del cervello diventano più casuali. È preoccupante che, nella corteccia prefrontale dorsolaterale — centro importante per il ragionamento razionale — le funzioni diventino praticamente sopraffatte con l’aumento delle temperature. Questo aiuta a spiegare perché durante le ondate di calore si registrano picchi di aggressività e comportamenti impulsivi. L’effetto si estende dagli individui all’intera popolazione: i giudici dell’immigrazione prendono decisioni più dure, gli studenti mostrano una capacità di apprendimento ridotta, i tassi di violenza aumentano. È un promemoria pesante, relativo al fatto che la nostra architettura neurale si è evoluta per un intervallo di temperature specifico (che stiamo sempre più superando).
In che modo il cambiamento climatico indebolisce il nostro libero arbitrio e induce anche malattie infettive su larga scala?
Quando il caldo estremo ci spinge verso l’aggressività, se gli uragani scatenano il disturbo post-traumatico da stress (PTSD) – condizione che altera drasticamente il comportamento e i modelli decisionali – ecco che il cambiamento climatico sta effettivamente limitando le nostre scelte. Allo stesso modo, poiché le temperature in aumento ampliano la gamma di vettori di malattie come zecche e zanzare, le persone affrontano maggiori rischi per la salute, senza cambiare affatto il loro comportamento. Entrambi gli scenari rappresentano una sottile erosione dell’autonomia: in un caso, la nostra architettura neurale è direttamente compromessa; nell’altro, l’ambiente stesso diventa più ostile al benessere umano, riducendo le opzioni sicure. La capacità del cervello di prendere decisioni ponderate, di esercitare ciò che potremmo chiamare “libero arbitrio”, dipende sia dalla stabilità interna che dalle condizioni esterne. E il cambiamento climatico sta interrompendo entrambe le situazioni.
Così siamo già vittime della crisi climatica.
Stiamo sentendone gli effetti, ma penso che la parola “vittima” suggerisca una sorta di passività che non è sempre utile in questo contesto. Certamente siamo i partecipanti di un esperimento senza precedenti, che lo vogliamo o no, ma alcuni hanno scelto questo esperimento. Certi hanno perpetrato la crisi climatica. Ma sì, sono vittime anche loro. Gli impatti neurali del cambiamento climatico sono già misurabili. Credo che comprendere questi impatti non significhi accettarli come inevitabili. La stessa neuroplasticità che rende il nostro cervello vulnerabile ai danni ambientali, ci dà anche la capacità di adattarci e rispondere. Tuttavia, dobbiamo prestare attenzione a questi danni.
Come il degrado ambientale s’infiltra nei sistemi sensoriali – l’olfatto e l’udito – influenzando alcune forme di depressione?
Il cervello costruisce costantemente modelli basati sugli input sensoriali, cercando di minimizzare le sorprese e confrontando le previsioni con la realtà. Quando il degrado ambientale interrompe questi input sensoriali, come una diminuzione del pH che influisce sui recettori olfattivi negli organi olfattivi, altera fondamentalmente la capacità del cervello di costruire modelli accurati del mondo. C’è un’idea analoga rispetto alla depressione: quando non possiamo campionare l’ambiente in modo affidabile, potremmo ritirarci, invece di affrontare continuamente errori di previsione. Come dimostra il lavoro di Karl Friston, questo evitare può diventare auto-rafforzante, tuttavia ci impedisce di verificare se il mondo sia effettivamente sicuro. La perdita di informazioni sensoriali affidabili non solo ci disconnette dall’ambiente, ma può intrappolarci in schemi di isolamento che rispecchiano lo stesso degrado ambientale che li ha innescati.



Le immagini sono state scattate da Clayton Page Aldern durante il lavoro sul campo necessario alla scrittura di “Se il tempo è matto…”
È quasi paradossale che la lotta contro il cambiamento climatico richieda di affrontare il peso e le conseguenze del nostro stesso cervello e delle sue azioni.
Sì, stiamo affrontando un peculiare ciclo di feedback. I nostri cervelli si sono evoluti per dare priorità alle ricompense immediate rispetto alle conseguenze a lungo termine, un tratto che ci ha servito bene per gran parte della storia umana, ma che è diventato inadatto in un’epoca di decisioni su scala industriale. Gli stessi circuiti neurali che hanno contribuito a creare questa crisi attraverso l’ottimizzazione a breve termine ora devono essere consapevolmente reindirizzati verso un pensiero a lungo termine. Tuttavia, incolpare la “natura umana” può talvolta distrarre dai sistemi economici specifici che hanno accelerato questa crisi.
Si parla di stress post-traumatico dopo aver vissuto eventi meteorologici estremi. Yoko Nomura, neuroscienziata cognitiva al Queens College, ha condiviso una storia significativa a riguardo.
L’impatto neurologico degli eventi meteorologici estremi è profondo. La ricerca di Nomura è particolarmente sorprendente: ha scoperto che i bambini che erano nell’utero durante la super-tempesta Sandy, avevano tassi drammaticamente più alti di ansia e depressione in età avanzata. Le ragazze hanno mostrato un aumento venti volte maggiore dell’ansia, mentre i ragazzi presentavano tassi significativamente più alti di ADHD e disturbi della condotta. Questi non sono solo numeri: sono prove di come il trauma ambientale si incorpori nei nostri circuiti neurali, persiste ben oltre la crisi immediata e, tramite meccanismi epigenetici, potrebbe essere trasmesso anche alle generazioni successive.
Stanno variando anche i sistemi sensoriali e il comportamento degli animali?
I sistemi neurali degli animali sono finemente sintonizzati per analizzare l’ambiente circostante, minimizzando le sorprese, ovvero, per fare previsioni accurate sul loro mondo. Il cambiamento climatico sta interrompendo questo processo a più livelli. Nei pesci zebra, lo stress da calore altera l’espressione di proteine cruciali per la comunicazione neurale. L’acidificazione degli oceani modifica la struttura dei segnali chimici che gli organismi marini utilizzano per rilevare predatori e cibo. Alcune specie mostrano risposte invertite ai segnali di pericolo, nuotando verso le minacce, invece che allontanarsi. Quando i sistemi sensoriali non riescono a campionare l’ambiente in modo affidabile, gli animali possono finire con modelli sistematicamente errati del loro mondo.
Lei afferma: “Siamo nel mezzo di un grande esperimento e il laboratorio in cui ci troviamo è la Terra.” Quali soluzioni?
Penso che il percorso da seguire richieda una consapevolezza sia individuale che collettiva di quanto profondamente il cambiamento climatico influisca sulla nostra architettura neurale e sensoriale. Ogni forma di consapevolezza, richiede il riconoscimento che i nostri cervelli e sistemi nervosi siano parte stessa e integrante dell’ambiente. Individualmente, ciò somiglia molto al coltivare una sorta di consapevolezza ambientale: mentre il mondo cambia, dobbiamo aspettarci di cambiare con lui. A livello sociale, significa enumerare i costi neurologici del cambiamento climatico, costruire una “resilienza biologica” (come suggerisce Yoko Nomura) attraverso strategie preventive e trasformare i nostri sistemi e infrastrutture per ridurre i fattori di stress ambientali. Le soluzioni devono operare su entrambi i livelli. Devono proteggere e rafforzare la nostra capacità biologica di far fronte al cambiamento, riducendo al contempo la gravità di quel cambiamento attraverso l’azione collettiva.
Come vede il ruolo della tecnologia e dell’intelligenza artificiale nel plasmare, in questo senso, il futuro della sostenibilità?
L’intelligenza artificiale e altre tecnologie avanzate sono strumenti potenti, ma non sono soluzioni magiche. Al momento, alcune di queste tecnologie, utilizzano molta acqua. Possono aiutarci a modellare gli impatti climatici sulla salute del cervello, prevedere la diffusione dei vettori di malattie e ottimizzare l’uso delle risorse. La chiave rimane garantire che questi strumenti servano il benessere umano ed ecologico, e non solo l’efficienza economica. Gli impatti neurali del cambiamento climatico richiedono soluzioni che integrino l’innovazione tecnologica con la saggezza sociale.
Discute anche del legame tra linguaggio e ambiente: “Ci sono due brillanti diamanti ecologici nascosti nelle teorie di Karl Friston sulle interazioni tra organismi e ambiente”
Le intuizioni di Friston sulle interazioni tra organismi e ambiente sono profonde. In primo luogo, gli organismi non cercano di modellare l’intero mondo, ma solo quegli aspetti rilevanti per la loro sopravvivenza nella loro nicchia ecologica specifica. Con questa prospettiva in mente, l’evoluzione stessa diventa una forma di minimizzazione delle sorprese, una selezione di modelli. La stabilità attraverso la previsione sembra essere il fulcro di ogni scala di analisi. La seconda intuizione è forse ancora più sorprendente: questi sforzi di modellizzazione sono perfettamente reciproci. Le nostre sensazioni sono le azioni dell’ambiente, e le nostre azioni sono anche le sensazioni dell’ambiente. È una danza continua di inferenza e influenza reciproca.
Il clima, trasformandosi, non solo cambia i paesaggi ma erode anche la diversità linguistica che nasce dall’esperienza umana di questi ambienti, accelerando la degradazione di tale ricchezza. Dedica un capitolo alla “Grammatica della Terra.” Quali sono i punti chiave?
Le lingue si evolvono per codificare le conoscenze ambientali necessarie per la sopravvivenza. Non a caso, la diversità linguistica è correlata alla biodiversità. Si considerino le centinaia di parole per “neve” nella lingua Sámi settentrionale, ognuna delle quali cattura distinzioni sottili utili per l’allevamento delle renne. Con il cambiamento ambientale, arriva una perdita di riferimenti. Gli stessi cambiamenti tengono gli allevatori lontani dalle loro famiglie per periodi più lunghi, e la trasmissione linguistica subisce un secondo taglio. Queste perdite si accumulano attraverso le generazioni, creando ciò che i linguisti chiamano “spostamento linguistico”: alla fine, intere lingue minoritarie vengono abbandonate a favore di culture monolingue dominanti.



Alcune immagini dal lavoro sul campo di Clayton Page Aldern.