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Tra le righe

11 Luglio 2025

L'approfondimento

Dalla parte dei selvatici

Di Patrizia Carrano

Che cosa fa una scrittrice? Scrive! E se è una narratrice come Patrizia Carrano, che sin dall'infanzia e per tutta la vita ha profondamente amato le foreste e gli animali, scriverà la storia di una donna, una quercia e alcuni lupi. Perché scrivere su chi si ama è la maniera migliore per avvicinarlo, rispettandone la libertà. E, forse, per salvarlo.

 

 

Creatura urbana e lagunare, sono stata portata nei boschi dagli animali, amati e inseguiti fin dalla prima infanzia. Basti dire che a quattro anni tentai di conquistare l’attenzione di una pantegana veneziana che s’affacciava spesso nel cortiletto di casa, per poi fuggirsene in un canale. Nell’età adulta, ai cani e a un’amatissima gatta si sono aggiunti i tanti cavalli che ho montato per monti e per valli, scoprendo l’incanto delle foreste e l’intreccio inscindibile fra la vita animale e quella vegetale.

Due mondi in pericolo, e non da ora: “Le nostre foreste cadono sotto l’ascia. Miliardi di alberi. I nidi degli uccelli, le tane delle bestie vanno perduti. Si abbassa il livello dei fiumi… E panorami sublimi scompaiono, per sempre… (….) Abbiamo distrutto le foreste, i nostri fiumi si stanno prosciugando, la nostra fauna è quasi estinta, il clima si è guastato, e ogni giorno, ogni giorno, dovunque si guardi, la nostra vita è più povera, odiosa”. Questo dice il dottor Astrov in Zio Vanja di Anton Čechov, rielaborazione di un suo testo teatrale giovanile del 1889 intitolato Lo spirito della foresta. Sembrano parole di Stefano Mancuso, il noto botanico fondatore del Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale, ma sono state scritte più di cent’anni fa, con una preveggenza che appartiene ai grandi della letteratura e del teatro.

Per chi, come me, ama appassionatamente la fauna selvatica, e la compiuta interezza dell’ambiente che la ospita, questi sono tempi dolorosi, in cui è difficile conservare la speranza che il genere umano si riorganizzi attorno all’indispensabile necessità di consumare, mangiare, costruire, in una parola vivere, con modalità meno scellerate e al dunque suicide.

“Come non avere paura del futuro?” si è chiesto Michele Serra, dopo aver partecipato a una recentissima edizione di Terra Madre, il raduno mondiale di allevatori e contadini legati dalla cultura ambientale, sia essa vecchia o nuova. E come potranno farcela, continua a chiedersi Serra, quando “l’allevamento intensivo e l’agricoltura monospecie che lo sostiene (è lei, la soia, che assedia la foresta pluviale in Amazzonia) hanno un potere di acquisto, e di persuasione, e di corruzione politica, un milione di volte superiore ai piccoli produttori saggi di Terra Madre?”. La risposta che si è dato è molto suggestiva: questi contadini sono come i monaci che nei monasteri dell’Alto Medioevo si preoccuparono di salvare la cultura e le colture (soprattutto viti e ulivi). “Con il senno di poi possiamo dire che erano dei lungimiranti, e in ultima analisi dei vincitori”.

Sono più pessimista del caro Michele, poiché non riesco a dimenticare la strage degli orsi attuata in Trentino e considerata una necessaria pratica di “pulizia selvatica”, né i cinghiali additati come degli invasori. Per questo ho sentito l’improrogabile necessità di usare il mio mestiere per narrare una storia che intreccia il destino di una donna, dei lupi e di una quercia, simbolo dei duemila miliardi di alberi che sono stati tagliati negli ultimi due secoli, come ci ricorda proprio il professor Mancuso.

I lupi italiani – la cui odissea seguo fin da quando, nel lontano 1973, il WWF affidò a un giovane zoologo di nome Luigi Boitani la messa a punto di un “Progetto lupo” destinato a salvare questa specie dalla definitiva estinzione nel nostro paese – sono divenuti, francescanamente, miei fratelli.

Lupo grigio, foto di Caleb Falkenhagen

I lupi che Boitani e i suoi volontari riuscirono allora a censire erano circa 100. Poiché dal ’77 il lupo è considerato una specie protetta, oggi siamo a 3.300. Ma questa specie è nuovamente in pericolo in tutta Europa, poiché nei mesi scorsi – con una scelta politica che fa retrocedere di decenni il dibattito sulla fauna selvatica – il Comitato permanente della convenzione di Berna ha votato a favore del declassamento dello status del lupo, portando la specie da “rigorosamente protetta” a “semplicemente protetta”. Il che – tradotto in soldoni – significa legittimare per legge le già troppo frequenti uccisioni con fucili, lacci, tagliole, bocconi avvelenati.

Il lupo sarà sempre in pericolo se non si riuscirà a salvaguardare l’ambiente naturale in cui agisce e a rovesciare drasticamente una cultura e un immaginario che da secoli lo dipingono come un cieco predatore. In che modo? Opponendo alle vecchie narrazioni nuove storie, di segno diverso. Non penso soltanto a una brillante e accurata divulgazione scientifica: al libro che ha inaugurato la collana “Animalia” di Adelphi, firmato da Carl Safina e intitolato Al di là delle parole, dove si racconta, fra l’altro, la reintroduzione dei lupi nel parco di Yellowstone; alla Via del lupo di Marco Albino Ferrari che li insegue dall’Appennino alle Alpi; al meritevole lavoro di divulgazione di Io non ho paura del lupo, un gruppo che si prefigge di assicurare la conservazione del lupo in Italia e in Europa e della sua coesistenza con le attività dell’uomo. Ma anche ai racconti e ai romanzi, capaci di portare con sé una simbolica forza d’urto: “Dove e da chi veniamo educati a entrare in relazione coi selvatici, una felice novità di cui però non abbiamo né una memoria né una cultura” ha scritto il ragazzo selvatico Paolo Cognetti in un suo appassionato intervento su Repubblica dell’aprile del ’23. Cognetti conosce bene ciò di cui racconta nei suoi libri, felice esempio di una narrativa illuminata e illuminante sulle montagne e la fauna selvatica, da sempre strumentalmente criminalizzata.

Leggere e scrivere su chi si ama è la maniera migliore per avvicinarlo, conoscerlo e possederlo, senza attentare alla sua libertà. È quel che mi è accaduto con i lupi e con gli alberi: per quasi un decennio ho passato alcune settimane estive nella bassa Normandia, in una zona a scarsissima densità abitativa, dove le foreste si estendono per decine di chilometri, orgogliose, incontaminate, frequentate da lepri e caprioli. Le verdissime terre attorno a Mahéru – piccolo borgo di 260 anime nel dipartimento dell’Orne – non sono ancora state raggiunte dal turismo di massa e il 15 agosto di due anni fa ho camminato per tre ore in un bosco di alti fusti vicino alla casa dei miei ospiti, senza incontrare altro che alberi, alberi e alberi, oltre ad alcuni esemplari di selvatici, a loro agio in un ambiente non ancora compromesso. Per una fortuita coincidenza avevo con me un libro del biologo e ingegnere forestale Laurent Tillon, edito in Italia da Contrasto e intitolato Essere una quercia, un testo pieno di fascino in cui si racconta la storia secolare di Quercus, un albero di oltre 250 anni, la cui esistenza è sempre stata inscindibilmente intrecciata con il popolo della foresta, dalla lepre al picchio al pipistrello. Per non dire dei lupi, dei cinghiali e delle poiane.

Il meraviglioso patrimonio della flora e della fauna, che ha permesso al pianeta azzurro di vivere secondo ritmi scanditi dall’alternarsi delle stagioni, è ormai giunto a un punto di rottura e basta un solo dato per comprenderlo: oggi – per la precisione dal 2021- sulla terra c’è una maggiore quantità di materiali sintetici che di vita. Un secolo fa il materiale sintetico – soprattutto cemento, plastica e asfalto – era inferiore all’1%. Quest’amara notizia mi ha raggiunto proprio quando la mia protagonista bussava sempre più insistentemente alla porta del mio immaginario, chiedendomi di raccontare la sua vicenda fra alberi e lupi.

Eccomi dunque alle prese con il mio mestiere di narratrice – da Giorgio Manganelli ho imparato a temere il termine “scrittore”, sentendomi assai più vicina al puparo Giacomo Cuticchio che all’accademia delle lettere – per tentare di contagiare chi eventualmente mi leggerà, conducendolo verso il mondo vegetale e animale cui mi sento inscindibilmente legata: del resto un saggio del filosofo Jacques Derrida si intitola L’animale che dunque sono. Nel 2006, Derrida scrive: “Gli uomini sarebbero innanzitutto quei viventi che si sono dati la parola per parlare univocamente dell’animale e per designare in lui quell’unico essere che sarebbe rimasto senza risposta, senza parole per rispondere”. Da queste righe sono passati quasi vent’anni, e oggi sappiamo ragionare sempre più finemente sul linguaggio animale, che è altro rispetto a quello dell’uomo, ma si rivela insospettabilmente complesso, e per me affascinante. Confesso di avere assai maggiore empatia per la scrofa senza nome, ingabbiata per l’intera sua orribile vita in una delle tante porcilaie di 34 piani costruite in Cina – e presenti in Italia, seppure con dimensioni più contenute – che per molti individui della mia specie.

In quanto alla mia protagonista Carlotta, meglio sventare fin da subito le eventuali curiosità – che si affacciano puntuali all’uscita di ogni romanzo di ogni autore – su quanto ci sia di vero e di inventato nella sua avventura esistenziale, usando le parole di Salvatore Mannuzzu nel suo La figlia perduta: “Si sa com’è un racconto: nulla in esso è vero e tutto è vero. Cose della vita vissuta, fatti accaduti, gesti e parole di persone conosciute prendono un ordine diverso e si mischiano con altro: generando realtà uguali a nessuna, che tuttavia ci appartengono più di tutte”. Ammetto però che anch’io, come Carlotta, ho avuto una piccola carambola cardiaca. E lo confesso per un’unica ragione: ringraziare pubblicamente il meraviglioso personale clinico dell’Ospedale Santo Spirito di Roma. La situazione della nostra sanità è allo stremo, ma quando si incontrano medici e infermieri come quelli che si sono occupati di me, riesce a farsi strada la speranza in una medicina che curi e non trascuri. Così come cura e non trascura i suoi pazienti il C.A.N.C. Centro Animali Non Convenzionali di Grugliasco, valorosa struttura della facoltà di medicina veterinaria di Torino, che ha accolto e guarito tanta fauna selvatica. Sarebbe troppo lungo citare le molte iniziative di sostegno ai selvatici, ma mi regalo il diritto di ricordare il lavoro encomiabile del “Progetto lupo- monte Adone” che ha raccolto e guarito quasi cento lupi e l’appassionata missione della clinica veterinaria Due Mari di Oristano che, guidata dalla veterinaria Monica Pais, combatte da anni le nefaste conseguenze del randagismo e dei tremendi incendi che annientano la fauna selvatica di quella regione.

Patrizia Carrano Il bosco degli scrittori Torino 2025

Patrizia Carrano durante la presentazione de Il cuore infranto della quercia al Salone del Libro 2025, all’interno del Bosco degli scrittori.

Pur non essendo una biologa, per pura passione – proprio come Carlotta – ho studiato quanto ho potuto, seguendo il lavoro del professor Enrico Alleva, divenuto un mio caro amico; quello di Luigi Boitani, che ho intervistato più volte; del neurobiologo Giorgio Vallortigara (qui l’articolo di Vallortigara su Aboca Edizioni Post, ndr) di cui sono attenta lettrice; conservando affezionata memoria della mia lunga frequentazione con Danilo Mainardi, padre dell’etologia in Italia, o del botanico e paesaggista Ippolito Pizzetti, che talvolta mi ha accompagnato per i boschi del Lazio: con le sue mani sempre sporche di terra, il suo aspetto di creatura silvestre, sembrava dovesse farsi albero lui stesso. Ma debbo anche infinita riconoscenza ai cavalli, che mi hanno accompagnato nelle foreste dell’Appennino e in altre parti del mondo. Il respiro di un animale o il frusciare di un bosco è il respiro della terra. Sta a noi saperlo ascoltare, prima che sia troppo tardi.

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