Tra le righe
Intervista ad Antonella Fioravanti
I microrganismi, questi sconosciuti
Di Giovanna Zucconi
Sono ovunque, anche dentro i nostri corpi umani. Hanno permesso la vita sul pianeta, garantiscono molti processi biologici essenziali, possono contribuire a risolvere le crisi del nostro tempo: climatica, energetica, agricola. Ma costituiscono anche una minaccia, per le patologie storiche e per quelle nuove, scatenate dal cambiamento del clima e dalle guerre.
L'umanità deve compiere scelte cruciali per la sua stessa esistenza, e i microrganismi giocheranno un ruolo determinante per il nostro destino, come individui e come specie. Antonella Fioravanti, scienziata italiana di fama mondiale, al "mondo invisibile" ha dedicato una vita di scoperte scientifiche e di impegno nella divulgazione. Ora, nel suo primo libro, svela a tutti le opportunità e i rischi del micromondo. Perché tutti dobbiamo capire e agire. Adesso.
Nei nostri corpi c’è più di non umano che di umano.
Non è una battuta sulla robotica o sugli eccessi di silicone, non è una provocazione. È, semplicemente, un fatto. Che ribalta luoghi comuni, che sposta prospettive. Secondo una recente ricerca, in una persona di una settantina di chili ci sono all’incirca 30 trilioni di cellule che gli appartengono e 38 trilioni di microrganismi.
I microrganismi vivono intorno a noi, con noi, dentro di noi, ovunque, sul suolo e sotto gli oceani, nelle piante e negli animali, in pace e in guerra, in salute e in malattia; c’erano al principio della vita sul pianeta e ci saranno ancora in un futuro che non ci prevede. Creano problemi, grossi, e aprono opportunità, altrettanto notevoli. Soprattutto in questa nostra epoca di crisi multiple – climatica, bellica, energetica, alimentare, sanitaria, politica.
Ai microrganismi Antonella Fioravanti, scienziata di fama mondiale, ha dedicato un libro che apre un mondo, anzi un micromondo. E forse il mondo può contribuire a salvarlo.

Antonella Fioravanti, 42 anni, toscana, ricercatrice e poi professore a Bruxelles. Nel 2023 – per le sue scoperte in microbiologia e per l’impegno nella divulgazione scientifica e nel supporto alle donne nelle discipline STEM – è stata nominata Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia dal Presidente della repubblica, Sergio Mattarella.
(Photo credits Agnese Fochesato).
Questo libro, che è il suo primo libro, parla del micromondo. Di quelli che una volta si chiamavano “microbi”.
I microbi si possono ancora chiamare microbi, addirittura i primi scienziati che hanno immaginato esistessero li chiamavano “animaletti”. Oggi, avendoli visti con occhi speciali, i microscopi, li definiamo “microrganismi”: indicando, comunque, qualcosa di vivo che non vediamo a occhio nudo. Sono batteri, sono funghi unicellulari, sono microalghe, arechea, protisti e sono anche virus – anche se questi ultimi non sono tecnicamente viventi, hanno bisogno di un altro organismo per vivere, e dunque sono impropriamente classificati fra i microrganismi.
Cosa sono i microrganismi? Sono organismi talmente piccini che non li vediamo e sono fatti da singole cellule. Sono proprio la base della vita. Sono antichissimi, c’erano prima di noi e ci saranno dopo di noi. Sono i primi ad aver abitato questo pianeta e sono i primi che hanno dato la possibilità a chi è venuto dopo di abitarlo, perché sono i primi che hanno prodotto ossigeno. E tanti altri composti che hanno permesso la vita su questa terra.
Quanti sono e dove sono?
Sono gli organismi viventi più abbondanti sulla terra, abitano in tutti gli habitat, animali e piante inclusi. L’equilibrio con questi organismi permette la vita tutta, anche la nostra. Tendiamo però a darlo per scontato – fino a quando non abbiamo un problema, per esempio una disbiosi intestinale per troppi antibiotici. Senza i microrganismi non sarebbe possibile la vita sulla Terra, e noi umani non funzioneremmo come stiamo funzionando.
Da un lato la percezione che siamo parte di una rete di vita si è ampliata (pensiamo solo all’idea di One Health), dall’altro il micromondo affiora alla consapevolezza diffusa in termini non proprio armoniosi: West Nile, Zika, Sars-2, botulino, batterioresistenza…
Gli umani credono di essere al centro di tutto, invece dipendiamo da tantissime altre forme di vita, quelle visibili (le piante e gli animali, da cui traiamo energia, cibo, ossigeno) e quelle che non vediamo. Che sono proprio i pilastri della vita su questo pianeta, fanno parte di cicli e processi fondamentali. I microrganismi hanno creato l’ossigeno, fissano l’azoto per fertilizzare i terreni, purificano l’aria catturando la CO2, riescono a depurare le acque da alcuni composti inquinanti, sono in grado di degradare le microplastiche. Fare il pane, con il lievito, è un esperimento di microbiologia: se la temperatura è troppo alta o troppo bassa non riesce. Tanti farmaci li abbiamo scoperti osservando il micromondo, per esempio gli antibiotici sono nati vedendo come una muffa reagiva a un batterio.
Proviamo a collocare l’importanza dei microrganismi in questo specifico periodo che stiamo attraversando, come specie e come pianeta. Importanza nel bene e nel male: malattie ma anche soluzioni. Che tipo di scelte dovremmo fare, a questo punto? E chi deve farle, queste scelte?
Che ne siamo conosci o meno, stiamo attraversando un momento storico cruciale. Siamo una specie al bivio. Possiamo, dobbiamo compiere le scelte giuste al momento giusto, prima che la crisi sanitaria, alimentare, energetica abbia inizio. Le armi per affrontarla possiamo averle grazie alla ricerca, capendo cosa fare con lungimiranza, prima che sia troppo tardi.
Se l’umanità nel suo complesso deve fare delle scelte da cui dipende non il futuro della vita, ma il futuro della vita umana, il momento non sembra fulgido. La ricerca va finanziata ed è sovranazionale anziché sovranista, nella scienza bisogna aver fiducia mentre la diffidenza è contagiosa, la lungimiranza confligge con i tempi veloci del consenso politico.
Dobbiamo ridare valore al legame importantissimo fra scienza, politica e cittadino. Non vi so dire esattamente dove, ma a un certo punto qualcosa è andato storto. Gli scienziati non hanno più saputo parlare ai cittadini. La politica, non avendo pressione dal basso, si è occupata di cose più a breve termine e popolari. La ricerca di nuovi farmaci è in affanno perché non ci sono investimenti e richiede tempo. E poi ci si trova scoperti: quando arriva una pandemia, o quando le nostre medicine non funzionano più e i morti per infezioni da virus o batteri aumentano. Io credo che quando c’è da compiere una scelta importante che cambia veramente la direzione della storia, non può essere fatta dal singolo, da uno scienziato che a guisa di Salvatore scende dal cielo e rimette tutto a posto. Ci vuole la collettività, ci vuole una scienza che sappia parlare ai cittadini per informarli e renderli capaci di prendere decisioni basate sui fatti, e ci vogliono dei politici che ascoltino e collaborino con gli scienziati.
Dobbiamo andare tutti nella stessa direzione, all’unisono, se ci interessa la nostra sopravvivenza. Mi terrorizza l’idea che nel 2050, quando i miei figli non avranno ancora 30 anni, se non investiamo in ricerca e prevenzione, l’accesso all’acqua dolce sarà estremamente limitato, le temperature saranno insopportabili, la produzione di cibo avrà moltissimi problemi e le infezioni uccideranno.
Ripeto: negli Usa c’è il ministero della fede, sui social vince il peggiore, lo scetticismo verso la scienza aumenta.
Mi sono resa conto che oggi la sfida più grande non è più solo in laboratorio. Ho 42 anni, davanti al microscopio ho fatto quello che dovevo fare, ma non basta. L’umanità è travolta da crisi enormi, ma le persone non ne sono davvero consapevoli. E senza consapevolezza non ci saranno né sostegno alla ricerca, né politiche lungimiranti. Per questo ho scelto di affiancare al mio lavoro di scienziata quello di divulgatrice e voce pubblica: perché se il mondo non sa quello che so io, è una sconfitta. Che senso ha scoprire nuovi farmaci, se poi non arrivano alle persone perché mancano i fondi o perché è troppo tardi? La vera sfida, faticosa ma necessaria, è uscire dal laboratorio e portare conoscenza e responsabilità là fuori, dove davvero si decide il nostro futuro.
Com’è, invece, la vita in laboratorio? Chi non la conosce ne ha un’idea vaga.
Il laboratorio è il mio posto felice. Lavorando con i patogeni, è un laboratorio a pressione negativa e l’abbigliamento è un po’ scomodo perché ho un mega–tutone da capo a piedi, tipo SuperMario. Tante volte non vedi il sole, però è proprio un posto di pace, anche se ho a che fare con i cattivi. È un posto dove c’è ordine, perché l’ordine ti aiuta a proteggerti e se sbagli una procedura ti metti a rischio, metti a rischio gli altri. Al microscopio potrei passarci delle ore, degli anni, a guardare i miei batteri, quello che fanno, quello che faccio io a loro, poverini gliene faccio di tutti i colori e poi a modo loro si vendicano. Sono microscopi diversi, a fluorescenza o a scansione elettronica dove vedi tutto in 3D. Non finisci mai di scoprire, basta osservare. E poi però devi capire perché una certa cosa che hai visto è così.

Antonella Fioravanti nel suo “luogo felice”: il laboratorio. (Photo credits Kim Verhaeghe).
Ci sono dei momenti, ne descrive uno nel libro, in cui questa cosa un po’ romantica dell’illuminazione avviene, in cui ti si accende la classica lampadina. Parlo per esempio di quando ha capito come sconfiggere un super patogeno: l’antrace.
Mi è successo più volte, sono estremamente fortunata, ho fatto alcune grosse scoperte. Quello dell’illuminazione, o dell’intuizione, non è il momento in cui hai la prova, nel mio caso ci sono voluti anni per dimostrare che l’idea che avevo avuto nel 2014 era giusta. Quando accade hai una botta d’adrenalina, dopo però bisogna fare tantissimi controlli, e rispondere ai quesiti dei revisori esperti, per arrivare a pubblicare. Per questo i complottisti mi fanno sorridere: in tutti i settori esistono gli imbroglioni, ma dietro ogni ricerca e ogni scoperta c’è la fatica di tante persone.
Oggi tutti hanno certezze su tutto, specie su quello che non conoscono, mentre nella scienza la verità è verificata, epperò è anche provvisoria.
La scienza è un processo di errori, diciamo che una conclusione è definitiva nel momento in cui ho scoperto, descritto, dimostrato. Potrà cambiare, con nuove teorie o nuove tecnologie, come è successo a me per l’antrace: ho dimostrato qualcosa che prima non era stato visto né pensato. Ci si arriva con il “noi”, molti vivono la scienza in maniera individualistica e competitiva – non soltanto per ottenere i fondi, non soltanto come scontro fra idee, ma proprio come gara fra persone o fra gruppetti contrapposti. Mentre invece la scienza è una maratona, ogni risultato sbagliato è un passo avanti perché qualcuno rileggerà il tuo dato negativo e lo userà per nuove idee, per portare più in là la fiaccola della conoscenza.
Però, sia chiaro, ci sono anche certezze. Dobbiamo essere d’accordo sul fatto che la scienza non è democratica, non è fatta di opinioni, la terra non è piatta e non tutti possono discutere le scoperte o liquidare gli allarmi lanciati dagli scienziati.
Il libro esplora – in maniera davvero innovativa, anche per il pubblico non specialistico – il rapporto fra ambiente, clima, esseri umani e microrganismi. Ma si parla anche molto di animali: renne, pinguini, dromedari…
Gli animali in questo libro sono testimoni di un’emergenza che ci sta per piombare addosso,
Un episodio fra tutti. A causa del cambiamento climatico, in Siberia il permafrost si è sciolto e nel 2016 sono riaffiorate alcune carcasse di renna. Risalivano alla metà del ‘900, erano morte per antrace e rimaste congelate per decenni. Allo scioglimento, i batteri capaci di aspettare anni nella loro forma dormiente, le spore, hanno messo a rischio la vita di un intero villaggio. Non è fantascienza, le malattie del passato ritornano e colpiscono nel presente a causa dello sconquasso climatico provocato dall’uomo. Nel 2021 è uscito un articolo che ha calcolato che da ghiacciai in fusione vengono rilasciati ogni anno quattro sestilioni di microrganismi. 4 con 21 zeri dietro, un numero che non ti ci sta in testa. E dove vanno questi microrganismi? Nelle acque. Possiamo costruire quanti muri vogliamo, ma l’acqua, le nuvole, il cielo, i mari non si fermano, quindi vengono rilasciati ovunque e vanno ovunque e sono in grado di riprendere a vivere dopo milioni di anni. Alcuni possono essere anche coltivati in laboratorio. Moltissimi sono patogeni, moltissimi sono potenzialmente patogeni e tantissimi di questi sono resistenti alle medicine che abbiamo adesso. Il micromondo è parte di un tutto, e spesso le malattie infettive sono malattie ecologiche – legate alle stagioni, al clima e alla vita ed i ritmi di altri organismi.

Malattie e cambiamento climatico: dai ghiacciai in fusione vengono rilasciati ogni anno quattro sestilioni di microrganismi (4 con 21 zeri). Spesso patogeni, potenzialmente patogeni, resistenti alle attuali medicine.
(Photo Credits Yaroslav Shuraev).
Gli animali (le renne scongelate, i diecimila pinguini morti affogati nell’Antartico) come sentinelle di una malattia planetaria.
Tanti episodi – pubblici benché avvenuti nel silenzio del mondo, ma anche personali perché i microrganismi nel bene o nel male coinvolgono la vita di tutti – mi hanno spinto a scrivere questo libro. A provare a fare qualcosa, prima che fosse troppo tardi.
Cambiare il micromondo per cambiare il mondo, e viceversa. Ma quale lettore ha immaginato? E perché non ha scritto un libro per i bambini?
Perché non c’è tempo. I bambini sono già recettivi ma non hanno potere decisionale. Io scrivo per i cittadini consapevoli, qualsiasi mestiere facciano: avvocati, medici, politici, contadini (tanto più per i contadini, che hanno un grande ruolo in quello che sta succedendo), per chiunque voglia ascoltare. Perché è mio dovere, da scienziata, restituire alla società che ha investito in me. È questo che non ha funzionato fra società e scienziati, visti come alieni – intelligenti, superdotati, bravi, ma alieni. E invece siamo gente normale, gente che partorisce, che cambia i pannolini, gente che soffre, gente che vive, gente che piange. Gente che mangia, gente che ingrassa e non riesce a dimagrire, gente che ha tutti i problemi del mondo. Gli si buca la bicicletta, deve pagare il mutuo. Questo libro è scritto perché mi sono accorta, forse prima di altri, di come in piena crisi climatica i microrganismi si stiano adattando ad essa influendo sulla salute.
Questo libro è scritto perché mi sono accorta, forse prima di altri, di come in piena crisi climatica i microrganismi si stiano adattando ad essa influendo sulla salute.
E, viceversa, i microrganismi possono aiutare nella lotta contro la crisi climatica.
Ce ne sono milioni, studiamoli e capiremo come. Nonostante i lamenti populisti, la ricerca non è una attività privata, per le élite. È in gran parte pubblica, finanziata con le nostre tasse, dobbiamo quindi contribuire a orientare le scelte di investimento.
Torniamo a quel famoso triangolo politica-cittadini-scienza che è un po’ il crocevia di tutto. Torniamo anche alle parole chiave dell’attualità. Guerra: il rapporto fra guerra e salute non è molto raccontato, Gaza e Ucraina sono catastrofi ecologiche oltre che politiche, umanitarie, sanitarie, economiche. Migrazione: sfugge ai più il rapporto fra clima e migrazione. Economia: quanto costa risolvere, o al contrario non risolvere, il riscaldamento globale? Eccetera.
Nella storia dell’umanità, le malattie hanno plasmato enormemente la nostra civiltà, e c’è sempre stato un connubio fra malattie infettive e guerra. Un connubio letale, per tanti motivi diversi. Le ferite da campo, il sistema sanitario che va in affanno, il mancato accesso alle cure, e ora anche le armi che contaminano il terreno. E questo succede in Ucraina, succede a Gaza, dove non c’è più nulla se non desolazione e microrganismi patogeni che inquinano acqua, terreno, persone. Infrastrutture idriche distrutte significa che alle acque pulite si mescolano le acque sporche, diffondendo malattie causate da microrganismi resistenti a disinfettanti e medicinali. Tutto è contaminante, bisturi, garze, nulla è più sterile. Poi c’è l’esposizione ai metalli pesanti, che stimolano la resistenza dei microrganismi rendendoli ancora più patogeni. Secondo uno studio, a Gaza prima del 7 ottobre, negli scontri del 2019, c’è stato un aumento del 300% della resistenza agli antibiotici. Ve lo immaginate voi dal 7 ottobre a oggi cosa è successo?
E non è che i batteri rimangono là, la gente si muove, l’acqua non la fermi. C’è stata un’epidemia di poliomielite che l’Organizzazione mondiale della sanità ha cercato di arginare chiedendo delle tregue per vaccinare i bambini. Era stata debellata anni e anni prima, prenderla oggi significa essere debilitato, amputato, paralizzato, in una situazione dove non puoi neanche essere trasportato.
Per quale motivo si fa ancora la guerra con i carri armati, i droni, eccetera, quando sarebbe molto più comodo fare una guerra batteriologica?
Mi viene da pensare che le guerre batteriologiche sono inizialmente molto costose, devi avere i laboratori, gli scienziati. Comunque i russi lo facevano, ci sono delle aree chiaramente identificate dove appunto durante la guerra fredda sviluppavano bioarmi, fra esse i famosi sassi con dentro l’antrace; poi qualcuno montò al contrario un filtro, perché i questi laboratori devono essere a pressione negativa, e si ammalarono tutti. Del resto l’antrace come arma l’hanno sviluppata i nazisti, utilizzandola in varie situazioni di guerra.
Diciamo che la guerra batteriologica è costosa, ma nel lungo termine sarebbe low cost e farebbe girare meno l’economia. Forse è per questo che non si fa.
Che nel 2025 ancora non si sappia parlare e arrivare a una soluzione parlando e si debba fare la guerra, come si sta facendo adesso nel mondo, è veramente una sconfitta a livello del genere umano.
Forse siamo troppi e la natura, che è intelligente, sta trovando dei metodi per scaricare un po’ del peso dell’umanità dal pianeta.
La Terra non va più al ritmo del cambiamento geologico, ma del cambiamento umano. Va alla velocità nostra e quindi non ha il tempo per reagire e aggiustarsi. In Emilia ci sono state due alluvioni nella stessa stagione. Non è la natura che si sta ribellando, siamo noi che come lemming stiamo correndo dritti nel burrone. Sappiamo tutto, capiamo tutto, abbiamo tutti i mezzi per informarci, eppure… la natura fa la natura, siamo noi che non stiamo facendo le cose che dobbiamo fare per preservare noi stessi. I batteri mutano, crescono, vivono, si inventano di tutto e di più. E noi che cosa ci stiamo inventando? Adesso ci sono le microplastiche delle bottiglie che i nostri nonni hanno usato e buttato senza riciclare. E c’è ancora gente che non ricicla, e le microplastiche ce le stiamo mangiando, sono nel nostro cervello e nella placenta. Sono nelle nostre cellule, sono nelle piante, negli uccelli, negli animali. Ci stiamo ammazzando.
Ognuno deve fare il suo, io sono una biologa molecolare specializzata in patogeni e in batteri. E vi dico che c’è tanto lì che ci potrebbe aiutare, ma dobbiamo sbrigarci perché non c’abbiamo altri 50 anni. Abbiamo oggi, oggi, domani, quest’anno. Che cosa stiamo aspettando?
Che nel 2025 ancora non si sappia parlare e arrivare a una soluzione parlando e si debba fare la guerra, come si sta facendo adesso nel mondo, è veramente una sconfitta a livello del genere umano.
Dal momento che le scelte individuali, di tutti e di ciascuno, influiscono sul destino della rete di vita a cui apparteniamo, e le belle storie sono contagiose, vorrei ora tornare all’inizio, anzi agli inizi. Come, quando e perché è diventata scienziata? Predisposizione, incontri, letture, fortuna, caso?
Se vi aspettate il classico cliché della bambina che mescola intrugli, colleziona insetti e scrive equazioni alle elementari… mi dispiace, non ero io. Anzi, da piccola non avrei mai pensato di diventare una scienziata, probabilmente perché non sapevo neppure che fosse un’opzione reale. La parola “scienziata”, per me, era più o meno sinonimo di alieno. Ancora oggi, quando mi chiedono che lavoro faccio e rispondo “la scienziata”, spesso vedo le persone sobbalzare, mettermi a fuoco e cercare di capire se ho dei superpoteri… o qualche rotella fuori posto. In italiano, “scienziato/a” sembra una parola da premio Nobel o da persona anziana ormai passata a miglior vita. Al massimo, ti chiamano “ricercatore”. Studiando in francese e inglese, però, ho scoperto che altrove il termine “scientist” o “scientifique” è usato normalmente, e lì ho iniziato a sentirlo mio.
Ma torniamo indietro. Da piccola volevo fare la scrittrice o il magistrato. Leggevo tantissimo: a 9 anni avevo già finito tutti i libri della biblioteca di scuola. Mia cugina, per salvarmi dalla crisi di astinenza, e per salvare i miei genitori da una crisi finanziaria, mi iscrisse alla biblioteca cittadina. In un anno esaurii anche la sezione ragazzi e cominciai a esplorare le altre. Amavo partire da ciò che sapevo e chiedermi quale potesse essere il passo successivo. Guardavo il cielo, le nuvole, le costellazioni: alla fine delle medie le conoscevo tutte. Niente microbi, insomma, ma tanta immaginazione.
A 13 anni, improvvisamente, ho capito come funzionava la matematica: da allora è diventata un’amica, una certezza, una coreografia logica rilassante. Alle superiori invece ho seguito studi umanistici, con un’attenzione speciale per psicologia e sociologia (meravigliosa!).
E allora, com’è che sono diventata una scienziata? Credo che la chiave sia questa: non ho mai sopportato le ingiustizie. Forse troppi libri, forse l’essere cresciuta negli anni di Capaci e via D’Amelio. La mia maestra mi chiamava “l’avvocato delle cause perse”. I miei compagni di università “la sindacalista”. Alla fine delle superiori mi chiedevo come rendere il mondo un posto migliore. Magistrato? No: lo studio mnemonico della legge non faceva per me, e col mio carattere mi sarei messa nei guai nel giro di poco. Psicologa? No: troppa empatia, i pazienti mi avrebbero schiacciato. Medico? Quasi… ma curare i sintomi significa arrivare alla fine della storia. Io volevo arrivare prima, prima del dolore, prima della tragedia. Io volevo arrivare alla radice. E del resto cosa c’è più ingiusto se non una malattia?
Così ho scelto le biotecnologie mediche e mi sono specializzata in terapia genica e oncologica. I primi anni sono stati duri: oltre al caos organizzativo (eravamo i primi studenti di quel nuovo corso di laurea) avevo un’angoscia di fondo nell’idea di fare ricerca: e se non trovassi mai niente? E se passassi tutta la vita a cercare un qualcosa senza mai scoprilo?
Poi, studiando ingegneria genetica, ho capito: la scienza è fatta di errori. Il progresso non arriva dall’illuminazione di un singolo genio, ma da una staffetta senza delimitazioni spaziotemporali in cui ciascuno porta un pezzo di conoscenza. La strada giusta si trova grazie a tante strade sbagliate percorse prima da altri.
Quel giorno ho capito che sì, volevo proprio fare la scienziata.

Antonella Fioravanti ha scoperto come sconfiggere l’antrace, un superpatogeno usato anche nelle guerre batteriologiche.
Nell’immagine 1, Cellule di Bacillus anthracis non trattate; nell’immagine 2, Cellule di Bacillus anthracis trattate con Nanobodies anti “armatura proteica, S-layer.
(Fioravanti et al. 2019; Nature Microbiology).
Qual è stato il percorso, quali i traguardi?
Mi sono laureata in Biotecnologie mediche all’Università di Firenze nel 2010, con il massimo dei voti, lode ed encomio, e poi mi sono trasferita in Francia per un dottorato in biologia molecolare e cellulare. Nel 2014 ho iniziato a lavorare come ricercatrice all’Università di Bruxelles, studiando Bacillus anthracis, il batterio responsabile dell’antrace, una pericolosa arma bioterroristica. Con un approccio innovativo da me messo a punto, sono riuscita a caratterizzare e distruggere la sua “armatura” proteica, dimostrandone il potenziale terapeutico. Nel 2022 ho anche scoperto che tali armature sono, in realtà, veri e propri esoscheletri batterici.
Questi risultati, pubblicati su riviste come Nature Microbiology e PNAS Nexus, hanno aperto nuove possibilità di trattamento contro batteri resistenti agli antibiotici tradizionali. Per questo lavoro ho ricevuto dall’Accademia Reale delle Scienze Belga, in collaborazione con il giornale scientifico EOS, l’“EOS Pipet 2020” (prima straniera a vincerlo), premio conferito al più promettente giovane scienziato dell’anno. Sono stata inclusa nella lista Fortune Italia dei “40 under 40” e, nel 2021, nella classifica della rivista F delle 100 donne più influenti del 2020, oltre al premio “Cerreto 2020” della mia città, Prato.
Nel 2021, a 37 anni, sono diventata professoressa all’università fiamminga VUB di Bruxelles, e dal 2024 ricopro il ruolo di Guest Professor all’università francofona ULB. Collaboro come esperto valutatore per il Consiglio europeo per l’innovazione (EIC).
Parallelamente, ho sempre portato avanti un impegno costante nella divulgazione scientifica e nel supporto alle donne nelle discipline STEM: ho promosso politiche per facilitare la maternità delle ricercatrici, svolto attività di mentoring per giovani scienziati (quanto bisogno c’è di mentoring!) e, nel 2020, ho fondato il capitolo belga dell’AIRI per rafforzare i legami scientifici tra Italia e Belgio.
Dal 2021 al 2024 ho avuto l’onore di affiancare l’Ambasciata d’Italia a Bruxelles, guidata dall’Ambasciatore Genuardi, come consigliere scientifico. Nel 2021, per il mio profilo scientifico e il mio attivismo, sono stata nominata membro del Bilateral Belgian-Italian Advisory Board per l’uguaglianza di genere e la promozione di donne in posizioni di leadership, organizzato dall’Ambasciata d’Italia a Bruxelles e dal Ministero degli Esteri belga.
Nel 2023 sono stata nominata Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia dal Presidente Mattarella, per il mio contributo scientifico, l’impegno nella divulgazione, l’empowerment delle donne e il rafforzamento dei rapporti tra i due Paesi.
Oggi, oltre al mio lavoro di ricerca e insegnamento, ho accettato la presidenza della Fondazione Parsec di Prato, che gestisce il Museo di scienze planetarie, il Centro di scienze naturali e l’Istituto geofisico toscano.
Quanta tenacia ci è voluta?
Tanta, ogni giorno. Le cose possono anche “capitare”, ma per farle succedere davvero servono impegno, determinazione e una buona dose di testardaggine.
Essendo, poi, scienziata e donna. Donna e scienziata.
Quante pagine abbiamo a disposizione? Perché qui ci sarebbe da scrivere un libro. Sai, mi sono accorta di essere “donna” davvero solo quando aspettavo mia figlia. Non ridete…
Prima di allora mi sentivo uguale agli altri: nessuno mi aveva mai detto “tu non puoi” e non avevo percepito discriminazioni dirette. È vero: per anni sono stata l’unica ricercatrice donna del dipartimento; è vero che, per molto tempo, c’era una sola professoressa tra tutti i docenti; ed è vero che, quando sono diventata professoressa io, mi sono trovata davanti a colleghi poco propensi a prendermi sul serio in quanto donna. Ma ero felice: lavoravo senza sosta al mio progetto, avevo fondi sufficienti e le mie uniche preoccupazioni erano la stanchezza e gli esperimenti che non confermavano la mia ipotesi.
Poi è arrivata la gravidanza, e con lei i problemi. Non potendo più fare esperimenti, avrei dovuto essere esclusa dal laboratorio. Ma chi avrebbe portato avanti il mio lavoro? C’era il rischio concreto che mi venisse portato via, come purtroppo accade spesso. Così ho nascosto la gravidanza fino al quinto mese. Ho continuato a lavorare grazie a una rete di persone fidate, che hanno fatto per me attività che avrebbero potuto mettere a rischio la mia salute. Ho lavorato fino a mezz’ora prima di entrare in sala parto.
Non ho fatto maternità: non c’era nemmeno uno spazio per allattare. È in quel momento che ho “scoperto” di essere donna – perché ho dovuto affrontare ostacoli che fino ad allora non avevo visto, ma che erano lì, pronti a fermarmi.
Da quell’esperienza si è rafforzato il mio impegno per cambiare le cose per chi sarebbe venuta dopo. Ho lottato per creare protocolli, promuovere politiche e mettere in atto azioni concrete che evitassero ad altre ricercatrici le stesse difficoltà.
Secondo il rapporto UNESCO 2024 Changing the Equation: Securing STEM Futures for Women, le donne occupano solo il 22% dei lavori STEM nei Paesi del G20.
Ma non trasformiamo questa situazione in una questione di semplice equità o diritti, né di quel termine che amo tanto, “femminismo”, ma che molti considerano una “parolaccia”. Facciamola invece diventare una questione di immensa perdita di opportunità per l’intero genere umano. Uomini e donne: abbiamo tutti gli stessi diritti (o almeno, così dovrebbe essere), ma non siamo uguali. Percepiamo, ragioniamo in modo diverso, arriviamo a soluzioni in modo diverso. Ci sono studi che dimostrano che un team di scienziati composto da uomini e donne è molto più produttivo e creativo rispetto a uno formato solo da uomini. Il genere umano sta vivendo un momento storico eccezionale che ci vede sull’orlo di crisi sanitarie, climatiche, di mancanza di cibo e risorse energetiche, che richiedono il contributo di tutti. Non coinvolgere le donne in questo processo non è un torto fatto alle donne, ma un danno enorme per il futuro del genere umano.